Riportiamo qui "Datevi una mossa!" intero racconto che Marco Sommariva (www.marcosommariva.com) ci ha prestato per questa occasione.
Buona lettura.
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Mi chiamo Walter. Walter Stanchi. Sono di Sestri Ponente, una delegazione genovese, e vorrei raccontarvi una storia. La mia storia.
Mi piacerebbe cominciare parlandovi dei miei genitori: di mia madre che lavorava in una fonderia di Multedo, vicino Sestri, cresceva quattro figli e viveva accanto a un tipo come mio padre Attilio; di mio padre, un anarchico che ha sempre rifiutato d’iscriversi al Partito nazionale fascista, che veniva spedito in guardina dalle camicie nere o chiuso in casa e sorvegliato da qualche vicino collaborazionista ogni volta che in città c’erano eventi importanti, che fu arrestato e condannato a due anni di confino a Lipari per propaganda antifascista, che…
Ma forse è meglio che la smetta di parlare dei miei, soprattutto di mio padre, e che cominci a raccontare qualcosa di me. Dico così perché so che, a distanza di tanti anni, l’argomento Resistenza annoia facilmente e – ve lo dico con franchezza – non vorrei che questo succedesse. Perché è proprio di Resistenza che vi vorrei parlare. Quella con la erre maiuscola, quella che ho fatto anch’io. Spero abbiate presente l’argomento.
Ero un tipo magrolino e solitario, che non s’interessava di sport e non lo praticava, che amava giocare a carte e che si poteva incontrare facilmente alla Croce verde di Sestri, che non fumava, non s’ammalava mai e adorava ascoltare un po’ di musica alla radio, con le cuffie, la sera. No, non ero perfetto, qualche difetto lo avevo anch’io: non bevevo vino e, come tutti gli uomini di quell’epoca, mi rifiutavo di fare la spesa in quanto la ritenevo cosa da donne. Benché andassi bene a scuola, ho frequentato solo le elementari perché servivano soldi in casa: mio padre, allergico alla tessera del Pnf, aveva perso il posto di tracciatore all’Ansaldo e, come disoccupato, riceveva pochi aiuti perché chi provava a dargli una mano rischiava a sua volta il licenziamento. S’era messo a vendere frutta e verdura andando in giro col carretto ma, non avendo la licenza, gli capitava facilmente di prendere multe che annullavano i suoi pochi guadagni.
Così, a dieci anni, ho cominciato a dare una mano a un vicino di casa che faceva l’idraulico. L’ho fatto per circa tre anni, nonostante la paga fosse vergognosa. Allora era normale cominciare a faticare a quell’età; oggi, per fortuna, non succede più. Si fa per dire, fortuna. Perché se le cose sono cambiate, se non siete più vestiti da balilla, non salutate più col braccio alzato un fanatico guerrafondaio e se poter continuare gli studi è molto più facile, non è grazie alla fortuna ma a gente come me. E lo dico sapendo che, in questo modo, rischio di passare per uno che si vuol dare delle arie… pazienza!
A proposito di Mussolini - il fanatico guerrafondaio, appunto - la mia prima azione politica avviene proprio manifestando a favore del suo arresto. Era il 26 luglio del ‘43, me lo ricordo benissimo: quell’anno ho fatto un bel po’ di casino in giro.
Vi stavo raccontando di quando, all’età di dieci anni, ho cominciato a lavorare presso un artigiano idraulico e ho finito col parlarvi di balilla e Mussolini. Sarò forse sembrato dispersivo, ma non é proprio così: nulla sfugge a un regime totalitario. I tentacoli di chi comanda con l’obiettivo di uniformare pensieri, azioni e parole a propria immagine e somiglianza hanno la capacità d’intrufolarsi ovunque, anche nella quotidianità di un bambino. So che tutto questo potrà sembrarvi strano, ma vi prego di credere a chi ha già vissuto una simile esperienza.
A inserirmi nell’ambiente partigiano sestrese fu Ivo, un tizio conosciuto nei locali della Croce verde, un bel tipo. Uno che girava in bicicletta lanciando bombe a mano, uno che faceva tutto da solo. Più d’una volta i partigiani organizzati si sono trovati il “lavoro” già fatto. Fu proprio Ivo ad accompagnarmi in Piemonte quando decisi di abbandonare la famiglia. In casa sapevano che mio fratello Luigi – più vecchio di me, comunista – faceva il partigiano, ma non immaginavano nulla di quel che combinavo in giro io. Ovviamente Luigi sapeva di me, ma sia lui che io ci guardavamo bene dall’aprir bocca: muti in casa e fuori. Sempre. Pensate che un giorno ci siamo salutati uscendo di casa e ci siamo rivisti poco dopo, su alla Costa – un quartiere di Sestri – durante uno scontro a fuoco con i fascisti. Quando i miei hanno cominciato a sospettare qualcosa, me ne sono andato: da quel momento i loro presentimenti sono diventati certezze.
L’8 marzo del ‘44 ho raggiunto Cuneo per unirmi alla Brigata Val Casotto appartenente alla Prima Divisione Langhe e - pensa te la scarogna! - il 14 dello stesso mese sono finito in un’imboscata nazista. La Brigata era formata da un gruppo eterogeneo; c’erano alpini reduci dalla Russia, operai torinesi, professionisti con le scarpe basse che sapevano a malapena maneggiare un fucile, marinai genovesi e persino alcuni dei tanti prigionieri jugoslavi liberati il 10 settembre del ‘43. Anche il colore politico non era omogeneo, ma si andava tutti d’accordo perché ci univa l’idea che era meglio morire che continuare a vivere sotto dittatura.
Eravamo uomini liberi, capaci d’obbedire senza servilismi e di dire ciò che si pensava quand’era necessario, e credevamo a tal punto nella vittoria finale da parlare continuamente di cose da fare dopo la guerra partigiana.
Ovviamente, non erano tutte rose e fiori. Problemi ne avevamo, e non erano neanche dei più semplici. Abbiamo vissuto momenti di forte tensione per le differenze fra il gruppo di partigiani repubblicani – politicamente qualificati – e la componente militare molto sospettosa della politica in genere; fenomeni di attesismo e collaborazionismo; alcuni sporadici tentativi dei singoli di dialogo con tedeschi e fascisti. E i problemi non finivano lì, c’erano anche quelli materiali. Non avevamo abbastanza scarpe e abiti adatti alla montagna e alle sue temperature (ricordo gente che montava di guardia scalza e in giacchetta, mentre la notte si scendeva sotto lo zero); avevamo una coperta ogni due uomini, perché alcune le avevamo ridotte in stracci per fasciarci i piedi. I viveri erano scarsi, benché le donne dei paesi a valle salissero tutti i giorni per portarci quel poco che riuscivano a sottrarre dalle loro scarse razioni. Le armi c’erano, ma cominciavano a scarseggiare le munizioni. Per non parlare dell’abbondante, onnipresente, fastidiosissima neve. Unica consolazione: uno splendido ospedale da campo sottratto al nemico.
Vi dicevo dell’imboscata. Adesso vi racconto com’è andata.
Occorrevano sei volontari per compiere un’azione e io, subito, mi sono fatto avanti. Bisognava lanciare dall’alto contro una colonna d’autoblindo tedesche delle bombe rudimentali preparate con le nostre stesse mani. L’operazione consisteva nel tenersi in quota, scendere sulle rocce a strapiombo sulla strada, lanciare gli ordigni e ripiegare. Durante il percorso abbiamo imboccato un sentiero che passava accanto a una cascina adagiata a mezzo versante. Dai comignoli usciva un fumo invitante e fuori faceva molto freddo: tra il 10 e l’11 marzo era caduto oltre un metro di neve e un vento gelido ci mortificava il viso. Il sentiero era quasi tutto ghiacciato e si rischiava continuamente di scivolare, ma non si poteva fare diversamente perché nella neve fresca si affondava fin oltre la cintola. Erano circa le quattro del pomeriggio, quando abbiamo deciso di chiedere ospitalità. L’intenzione era quella di aspettare al riparo fino al calar della sera, momento in cui avremmo agito. Ancora non lo sapevamo, ma stavamo andando dritti in bocca al nemico.
La nostra lenta discesa fino alla cascina stava avvenendo sotto gli sguardi attenti e silenziosi di una pattuglia di Alpenjager, sciatori tedeschi addestrati alla guerra in alta quota, famosi per il trattamento crudele riservato ai vinti. Erano stati distaccati lì apposta per proteggere la colonna d’autoblindo da eventuali attacchi alle spalle. Soldati armati fino ai denti, invisibili nelle loro divise bianche. E mentre, ignari di tutto, stavamo camminando nei mirini nazisti, qualcuno di noi s’accendeva una sigaretta e qualcun altro sperava gli venisse offerto un po’ di latte caldo. I mitraglieri dovevano soltanto tenerci sottomira, aspettando che ci avvicinassimo a sufficienza. E i loro indici, pazienti quanto basta, si sono mossi al momento giusto.
Eravamo solo a un tiro di sasso dal casolare quando, con poche raffiche, hanno falciato cinque di noi: insieme a me, si sono accasciati sul ghiaccio Mario Lallo Dogliotti, Giovanni Biffo, Marcello Tumino che, nonostante grondasse sangue, ha fatto ancora in tempo a buttarsi in un fosso e Ottorino Tobia, trafitto da una sfilza di proiettili dal collo fino al fianco sinistro e rotolato non so quante volte prima di sbattere contro un castagno scheggiato dai proiettili. Tutti e cinque morti.
Immaginate cosa vuol dire? Provate a pensare alle nostre madri, alle nostre fidanzate. La mia morirà qualche mese dopo di tifo; si chiamava Rita e non mi riuscirebbe mai di spiegarvi quanto eravamo innamorati. L’unico superstite – Enrico Tumino, fratello di Marcello – morirà anche lui da partigiano prima della Liberazione.
E così, mentre tornava a calare il silenzio e il fumo continuava a uscire dai comignoli, cinque ragazzi giacevano a terra. Pensate che il più vecchio aveva soltanto ventun’anni! Cinque ragazzi morti sono sempre un prezzo troppo alto da pagare, ma in quegli anni non bastava rimboccarsi le maniche per far cambiar le cose. E pazienza se a me e ai miei compagni è andata meno bene, e adesso apparteniamo al folto gruppo di partigiani che non è più tornato a casa.
Nell’attimo trascorso tra il capire d’essere finito sotto il tiro dei mitra nemici e l’essere raggiunto dalla raffica, ho avuto giusto il tempo di pensare che avremmo meritato maggior fortuna.
Se credete che sia finita qua, vi sbagliate. Cosa vanno a inventarsi i nostri assassini? Ci seppelliscono vicino alla cascina, in una fossa comune, minandoci. Vi spiego subito cosa significa: mettono sotto di noi delle bombe a mano prive di sicura, ma con la leva in pressione pronta a scattare e a far esplodere gli ordigni appena qualcuno oserà sollevare i nostri corpi. Capito i bastardi? So che è un trucco usato ancora oggi; l’hanno persino riproposto ultimamente in certi film americani. D’altra parte, cosa pensate possa insegnare la guerra?
Ma torniamo a noi.
Giovanni, il necroforo del paese, assiste alla nostra sepoltura, riferisce tutto al dottor Brusio, medico di Pamparato, e questi va al Comando tedesco a chiedere di disseppellirci per evitare l’inquinamento delle acque: doveva pur inventarsi qualcosa per tirarci fuori di lì e sotterrarci in un cimitero. Una volta terminate le inevitabili discussioni, e dopo aver ascoltato la storia della trappola con la faccia di chi non poteva immaginare tanto orrore, il dottore se ne va col permesso desiderato. È Giovanni a fare il delicatissimo lavoro di sollevarci senza saltare in aria insieme a noi e a trasferire i nostri corpi nel cimitero di Pamparato dove, alla fine della guerra, i nostri cari sono venuti a identificarci.
Spero di non essermi dilungato troppo, di non avervi annoiato. Ammetto che una volta non ero così chiacchierone, anzi, ero un tipo taciturno. Lo sono stato fin da bambino. Me lo ricordo: ho buona memoria.
Quanti ricordi… Ricordo quando accompagnavo mia sorella Rosa – Rosetta, per amici e conoscenti – al cinema Italia, dopo cena, una volta al mese. Mi spiaceva che pagasse sempre lei, ma era l’unica che se lo poteva permettere: lavorava alla San Giorgio, faceva la collaudatrice di quadri elettrici delle centrali di tiro. Andavo con lei perché, all’epoca, se una ragazza usciva di sera da sola veniva scambiata per una poco di buono. Comunque, l’accompagnavo volentieri. Quanti ricordi… Ricordo quando ho preso il posto di mio cugino Edoardo, un fornaio sestrese conosciuto nella zona come u moettu, il moretto; doveva sposarsi, ma si rifiutava di fare la cresima, e allora l’ho sostituito io. Tanto il prete non conosceva né me né lui. Quanto abbiamo riso quel giorno lì. Avevamo voglia di ridere, di scherzare. Eravamo ragazzi.
Ma torniamo a noi.
In riconoscimento al mio sacrificio, ho ricevuto nel 1947 la Medaglia Garibaldina e nel 1951 la Croce al Merito di Guerra, tuttavia la cosa di cui vado più orgoglioso è l’aver contribuito a sconfiggere un regime.
Croce e medaglia mi sono state date quasi subito e qualcuno, ancora adesso, si ricorda di me verso la fine d’aprile, diciamo intorno al 25 (vi dice niente questa data?), ma durante l’anno mi capita sempre più spesso di restare solo. Anche se poi proprio solo non lo sono mai perché qui, al Sacrario dei Caduti del Cimitero dei Pini Storti di Sestri Ponente, siamo più di cento. Ma siamo tutti noi: caduti, appunto. Caduti per la libertà, la vostra libertà. E, a proposito, se mentre godete di questa vostra libertà vi venisse voglia di portarci un fiore, fatelo. E se non fosse il 25 aprile, venite lo stesso. Non siamo così formali. E se, una volta lì, vi venisse voglia di dirci grazie, fatelo. Non vergognatevi. Anche sottovoce andrà bene. E se siete giovani, meglio, ci farete ancora più contenti: perché qui, in questo sacrario, siamo quasi tutti ragazzi. Perché, scusate, se ci dimenticate voi, chi difenderà quanto abbiamo conquistato pagando con la vita?
Io sono venuto a trovarvi con questo racconto, ma di più non posso fare. Giuro. Ora tocca a voi venire a trovare me. Vi aspetto.
P.S.: chiunque verrà potrà far la conoscenza di mio cugino Dario Stanchi che è qui, accanto a me. Anche lui è di Sestri Ponente e anche lui è andato fino in provincia di Cuneo per morire come partigiano. Pensate che per poco non condividiamo anche il giorno della morte: io vengo ucciso il 14 marzo del ‘44, lui fucilato dai tedeschi tre giorni dopo. L’età, però, è decisamente diversa: io avevo soltanto quindici anni, lui ne aveva già venti. Si fa per dire, già. Va be’… che altro dirvi? Noi vi aspettiamo, ma voi… voi datevi una mossa!
Per sempre vostro
Walter Stanchi
Marco Sommariva
www.marcosommariva.com
Note
Il racconto è basato su fatti storici. La famiglia Stanchi di Sestri Ponente ha annoverato tra le proprie fila partigiani anarchici, comunisti e semplici antifascisti. Chi è fuggito in Francia perché perseguitato dal regime fascista, chi ha combattuto nella guerra civile spagnola, chi ha lasciato la pelle sulle alture liguri o piemontesi fra il ‘43 e il ‘45.
Durante la Resistenza la Val Casotto è stata teatro di sanguinose battaglie fra nazifascisti e partigiani ed è lunghissima la lista delle persone uccise dalle rappresaglie tedesche fra l’8 settembre ‘43 e il giorno della Liberazione: tutto questo, oggi, è ricordato da un grande cippo innalzato all’entrata della Valle.
Datevi una mossa! è stato pubblicato in appendice al romanzo Fischia il vento e, nel 2007, all’interno della raccolta La rossa primavera, insieme a racconti di Erri De Luca, Francesco Guccini, Loriano Macchiavelli, Ivan Della Mea, Nanni Balestrini, Lidia Ravera e altri.